La salicoltura nelle Saline di Trapani
Nelle nostre saline l’estrazione del sale dall’acqua marina avviene per evaporazione spontanea, grazie al clima caldo-umido e alla struttura fisica delle coste esposte continuamente a venti caldi e secchi.
La campagna del sale in Sicilia si protrae da marzo ad ottobre, in quanto la temperatura media annua aumenta lentamente fino ad aprile, più rapidamente a maggio e giugno, giungendo ai massimi valori nei due mesi estivi, a settembre poi la temperatura diminuisce gradualmente annunciando la stagione invernale poco rigida e piovosa. La descrizione che ci accingiamo ad esporvi è riferita al passato poiché il lavoro della salina, a quel tempo, veniva svolto quasi esclusivamente a mano, accompagnato da vecchi canti tramandati da padre in figlio.
Il ciclo del sale si articolava in diverse fasi concatenate l’una all’altra. La prima operazione, che aveva inizio, l’indomani di San Giuseppe, prendeva il nome di “assummari a salina” e consisteva nello svuotare le vasche, tramite pompe o spire, dell’acqua residua del periodo invernale. Successivamente venivano ripristinati gli argini, il fondo delle vasche, puliti i canali e sistemate le diverse parti della salina danneggiate durante il periodo di sosta invernale. Effettuata l’operazione di ripristina dei vasi più esterni, si proseguiva ad “ittari ‘n funnu a salina”, cioè al riempimento della “fridda”, sfruttando il gioco delle maree o la forza del mulino a vento.
Già nel mese di aprile ,’acqua, precedentemente raccolta nella “fridda”, acquistava un grado di salinità maggiore ed assumeva un colore più chiaro. A questo punto si dava inizio all’operazione di travaso dell’acqua da una vasca all’altra, preceduta dal necessario lavoro di ripristino e compattamento dei vasi man mano interessati. Il “vasu cultivu”, dove si conservava “l’acqua matri” della stagione precedente che era destinata ad essere riutilizzata come lievito nella nuova campagna, veniva svuotato dall’acqua piovana rimasta in superficie a causa del suo peso specifico meno elevato rispetto “all’acqua matri”.
Conseguentemente all’aumentare del grado di salinità si lasciava defluire l’acqua dei vasi al “vasu cultivu”, per caduta naturale dell’acqua a causa del dislivello del suolo, e quindi alle “ruffiana e ruffianeddra”.
Prima di continuare a fare defluire l’acqua nelle vasche degli ordini successivi si procedeva ad una accurata risistemazione e pulitura delle “cauri” e delle “caseddri”, che iniziava col prosciugamento dei bacini per mezzo di una “spiriceddra” azionata a mano e, nel caso in cui il fondo dei vasi risultava particolarmente fangoso, si lasciava asciugare per qualche giorno sino a quando il fango misto al sale, chiamato “mammacaura”, diveniva più compatto.
Quindi i salinari lo ammucchiavano sul fondo delle vasche stesse, dandogli la forma di pesce, detto “pisciteddru di mammacaura”, che una volta ben asciutto si utilizzava per compattare il fondo, le pareti delle “cauri” e il piano dell’“ariuni”, grazie al suo alto potere impermeabilizzante che impediva l’infiltrazione di acque esterne.
Infine veniva svolta la pulizia delle “caseddri“, dette “tirari a piaia”, utilizzando abitualmente un rastrello di legno, mentre se il fondo era fangoso e non uniforme i salinari lo spianavano con il “ruzzulu” e lo impermeabilizzavano con la “mammacaura”.
In ultimo, il fondo delle “caseddri” veniva cosparso di sabbia finissima, proveniente dall’Isola Grande sello Stagnone di Marsala, allo scopo di accumulare calore solare durante il giorno per poi renderlo nel corso della notte. Giunti a metà maggio, le “caseddri” erano pronte ad accogliere il liquido salmastro e dare così inizio al ciclo produttivo.
Da questo momento fino ad arrivare alla metà di giugno i salinari, in particolare “u curàtulu” e i “staciuneri”, “maniavanu u sali”, cioè osservavano con minuziosa attenzione il graduale aumento di salinità dell’acqua nei vasi, basandosi un tempo esclusivamente sulla loro esperienza accumulatasi di generazione in generazione.
Il salinaio infatti riconosceva il giusto grado di salinità dalla consistenza dell’acqua “filiari”, dal suo cattivo odore, dal colore cangiante dal rosa al rosso, per arrivare infine al bianco splendente; inoltre capiva per esempio che l’acqua aveva raggiunto i 25°-26° Bè quando, tirando una monetina da lire 10 nelle “caseddri”, questa non affondava, oppure, quando ai bordi delle “cauri”, si formava un sottile strato di schiuma “u rabbiù”.
Più tardi, fino ai nostri giorni, venne utilizzato l’areometro di Baumè, detto “pisasali”, strumento che rende più semplice e veloce la rilevazione del grado di salinità. L’operazione di “maniari u sali” era molto importante poiché da questa scaturiva la buona riuscita della raccolta, in quanto i salinari dovevano mantenere il giusto equilibrio nei bacini aggiungendo “acqua fatta” nelle “caseddri”, “stimpirari”, quando questa evaporava anticipatamente. Inoltre per mantenere a regime la salina si procedeva a “ittari a facciu”, ossia ogni giorno si lasciava defluire una “caura” in tre “caseddri” per sei giorni consecutivi.
Non appena nelle “caseddri” la superficie raggiungeva circa i dieci centimetri di spessore, si effettuava la raccolta, non prima però di aver ammorbidito la crosta con l’afflusso dell’“acqua fatta”; tale acqua oltre che ad ammorbidire la crosta serviva anche ad aumentare la produzione del sale. Fatto questo lavoro, si procedeva a “muddrari a salina”, cioè alla frantumazione della crosta salmastra per mezzo di “paluneddru” e del “palu pì rumpiri”, in tal modo la superficie delle “caseddri” assumeva un aspetto granuloso.
A questo punto il lavoro degli uomini della salina dipendeva dalle condizione atmosferiche, infatti se pioveva la superficie delle vasche salanti si ricompattava, pertanto, gli operai dovevano rifrantumarla con l’erpice “effici”; mentre se seguivano giorni di bonaccia, sulla superficie salmastra sorgevano cumuli di diverse dimensioni, detti “nevuli”, che gli operai dovevano appiattire con l’erpice, usato dal lato liscio.
Trascorsa così un’intera settimana per l’espletamento di questa operazione, si attendeva il momento della raccolta.
Giunti a metà luglio, per lo svolgimento dell’operazione successiva, venivano assunti degli operai stagionali, detti “staciuneri”, e degli “omini ‘dda venna”, ossia trasportatori a cottimo, Ma prima della raccolta del sali si procedeva alla fuoriuscita dell’“acqua matri” dalle caselle lasciando asciugare il sale per qualche ora.
Per facilitare il defluire dell’“acqua matri” dalle caselle, gli operai “mittianu a caseddra ‘n curria” costruendo con appositi attrezzi “palu e paluneddru” dei canali di scolo principali, chiamati “spiatura”, ai quali affluivano altri canali minori a reticolo.
Inoltre, periodicamente, si procedeva a “spurari i spiatura”, cioè venivano liberati i canali principali dal sale condensato, che ostacolava lo scorrere dell'”acqua matri”, con l’ausilio di una “spiriceddra a manu” manovrata da un giovane detto “assummavasu” o “assummaturi d’acqua”. A questo punto si “ammunziddrava u sali”, ossia gli operai sotto il controllo del “capurtitara” formavano i “munzeddri”, dei cumuli di sale dalla forma conica alti circa un metro. In ultimo gli “omini ‘dda venna”, ingaggiati per “nesciri u sali”, procedevano a trasportare il sale, accumulato il giorno precedente, sull’“ariuni”.
Gli “omini ‘dda venna” si suddividevano in due squadre, la prima di “spalatura” che riempiva di sale le “catteddri”, mentre la seconda di “cattiddrara”, di numero doppio, che le trasportava sulle spalle poggiandole su un cuscinetto “cuscineddru” imbottito di paglia, fino a raggiungere l’“ariuni”, dove le svuotava, formando un “munziddruni”, cumulo di sale dalla forma prismatica, che veniva ricoperto da tegole di terracotta “ciaramiri“. Responsabile delle operazioni di trasporto del sale era il “capuvenna”.
Tra i due compiti svolti dagli “omini ‘dda venna”, l’ultimo risultava più faticoso in quanto dalle “catteddri” fuoriusciva un liquido salmastro che causava delle piaghe sulle spalle degli operai; proprio per questo le due squadre si alternavano, dopo aver trasportato dieci salme di sale “dicina”, registrate dal “signaturi” sulla “tagghia”, corrispondenti a duecentoquaranta ceste. Per alleviare la fatica dei “cattiddrara” alla antica cesta in fibre vegetali venne sostituita dapprima la “cattedra” in lamierino zincato e in seguito la “carriola”.
Concluso il primo ciclo di raccolta, allo scopo di effettuare altre raccolte di sale, i salinari lasciavano sul fondo delle “caseddri” del sale che unito all’acqua facilitava la sua cristallizzazione. Detta operazione si ripeteva nel corso della stessa campagna estiva altre volte, giungendo in casi eccezionali ad effettuare in ottobre inoltrato la quarta raccolta.
Al periodo di intensa attività della salina seguiva quello invernale caratterizzato da quella stasi durante la quale la stessa sembrava cadere nel sonno , mentre in effetti gli uomini della salina svolgevano tutti quei lavori di manutenzione di cui necessitavano i bacini salanti, si dedicavano alla raccolta del pesce e al trasporto del sale ormai piazzato sui mercati di consumo.
Nel corso del tempo il trasporto del sale è stato affidato a diversi mezzi di locomozione: per via terrestre ai carri, per via fluviale alle barche. Molte saline, per facilitare il trasporto, erano dotate di canali “canali di mezzu”, che affluivano direttamente nel porto di Trapani, della larghezza di 4-5 metri e della profondità di 2-3, tanto da costituire una rete lunga fino a 16-18 chilometri.
Le imbarcazioni utilizzate erano di due tipi: gli “schifazzi”, barche a vale ad un solo albero, molto leggere e con poco pescaggio, manovrate da un solo uomo e capaci di un carico di 50 salme, e le “muciare”, piccole barche senza vela né ponte, che navigavano a rimorchio.
Le saline che non avevano accesso diretto ai canali dovevano ricorrere ad un primo trasporto per via terrestre mediante carri.
Per info e prenotazioni escursioni guidate:
[ Tel. Rossana: 320 7961240 | Mail: salinacalcara@gmail.com |Transfert: 328 3775895 ]
[ Incrocio Via verdi/Via Calcara – Fr. Nubia – Paceco, Salina Calcara ]